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Tra le strade desertiche del Kurdistan iraniano una macchina si inerpica per raggiungere un villaggio dove Behzad e due suoi colleghi si stanno dirigendo per condurre un’inchiesta sui riti funebri locali. L’attesa della morte di una signora anziana si prolunga più del previsto e Bezhad e i suoi colleghi entrano in contatto più profondo con i locali.
Kiarostami prosegue nel suo lavoro sullo sguardo, sul posizionamento del dispositivo, e dello spettatore, che viene continuamente sollecitato verso la consapevolezza dell’esistenza dello stesso. È un lavoro sulla mancanza, molti dei protagonisti non vengono mai mostrati cosi come le stesse case degli abitanti; è anche un lavoro sul tempo, sempre più dilatato ed il proseguimento sulla destrutturazione della narrazione. Emerge, con forza, il tema della ripetizione, nei dialoghi e soprattutto nella scena che si ripete all’infinito del protagonista che si dirige in macchina verso una collina dove è possibile parlare al telefono mobile. Proprio in questa ripetizione apparentemente sempre uguale a se stessa, si cela una delle pochissime unita narrative. Ogni telefonata riassume il passare del tempo trascorso, cosa è avvenuto e cosa no, e soprattutto diventa stimolo per la strada da prendere di chi, dall’altra parte del telefono, ha richiesto il lavoro a Behzad.

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