Un’anziana docente universitaria ed una donna venuta dagli Stati Uniti, ma di origine polacca, si ritrovano ad affrontare un tema di coscienza durante la lezione di etica. La donna, da bambina avrebbe dovuto essere nascosta e salvata dai nazisti perché ebrea; la famiglia che avrebbe dovuto aiutarla improvvisamente si era tirata indietro per un problema di coscienza morale e cattolica: non avrebbero potuto mentire sulla provenienza della bambina. La donna che si era rifiutata di aiutare la bambina era proprio la docente. Tra le due donne si instaura une relazione ambigua, destinata a percorrere le tappe di un chiarimento atteso da tempo.
L’ottavo film del decalogo di Kieslowski è un lavoro estremamente cerebrale. Mentire per salvare una vita o non mentire per non offendere la propria coscienza? Morale cattolica e paura delle conseguenze sono i perni intorno a cui ruota questo conflitto e che tutto sommato possono essere ridotti alla sola paura di quello che può accadere in seguito ad un comportamento che travalica le regole. Sono atmosfere cupe ed inquietanti, predomina la penombra e gli ambientamenti serali, quelle che Kieslowski mete in scena in questo film. E c’è, molto interessante, una autocitazione. Nella lezione universitaria una ragazza racconta una storia che è il soggetto del Decalogo 2: Non nominare il nome di Dio invano. Anche qui, in qualche modo, è in nome dei comandamenti che non si opera per salvare una bambina, e la domanda diventa: quando si opera in nome di Dio? Il dissidio tra il piano formale e quello reale è reso evidente e presentato come non risolvibile. Per questa ragione tra le due donne si stabilisce una comprensione che va oltre i sentimenti personali e che consente loro di elaborare, almeno in parte, un vissuto traumatico.