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Nel villaggio costiero di Yene, in Senegal, la vita è profondamente cambiata negli ultimi anni. La comunità, che tradizionalmente era composta da pescatori e contadini ha, poco a poco, perso il controllo del mare e della terra, a causa dell’inquinamento ma anche delle multinazionali straniere che con i loro metodi di sfruttamento intensivo non lasciano che le briciole ai locali. Le donne, che una volta si occupavano di affumicare il pescato, ora non possono far altro che raccogliere sassi per la decorazione dei muri di cinta dei ricchi. Tra questi c’è proprio il regista del documentario, Manthia Diawara, maliano formatosi culturalmente negli Stati Uniti dove è professore universitario a New York. L’idea iniziale di Diawara di tornare nella sua Africa per passare parte dell’anno e allo stesso tempo mettere su un’attività turistica, viene messa in crisi proprio dalla scoperta della nuova realtà. Quello del regista è dunque un’indagine sulla società locale che finisce per essere un’analisi introspettiva che termina con la consapevolezza che è necessario mettere in atto un cambiamento per modificare questa tendenza inarrestabile, magari grazie anche al suo film. A letter from Yene è una piccola gemma, che unisce momenti di meditazione ad altri di narrazione e critica. Molto interessante il lavoro sul tempo narrativo e sul silenzio, inteso come assenza di suoni oltre quello ambientale; proprio grazie a questo lavoro è possibile entrare immediatamente in contatto con i luoghi descritti che hanno nella dilatazione temporale e nei suoni una forte distanza dall’occidente. Lo stesso lavoro sulla grammatica filmica, a volte apparentemente fuori dalle norme, ci indica che stiamo assistendo alla narrazione di una società che ha regole fondanti molto diverse da quella occidentale, della quale, pure, lo stesso Diawara si sente parte.

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